MIA Photo Fair, giorno 2: Cosa resterà della fotografia? Che immagini avremo tra 80 anni?Dove sta andando il mezzo fotografico, nato nel 1839, nell’era della grande smaterializzazione?
Queste e altre domande sono state al centro della seconda giornata di MIA Photo Fair, che si è tenuta presso l’Allianz MiCo di Milano fino a domenica 14 aprile.
La riflessione è iniziata con la fotografia vernacolare, portando a una discussione sul futuro della fotografia e dell’arte nell’era dell’intelligenza artificiale e degli NFT.
La fotografia vernacolare è stata il momento clou della giornata, con il lavoro del “fotografo che non scatta fotografie”, Erik Kessels, artista, curatore ed esperto di comunicazione visiva olandese.
Kessels ha partecipato alla conferenza “Cosa resterà delle nostre facce”, dove ha dialogato con il giornalista e scrittore Michele Smargiassi.
Kessels era presente al MIA anche con il premio Welcome to my Unknown riservato agli under 35. Kessels, noto per il suo approccio non convenzionale alla fotografia, si è fatto un nome raccogliendo e curando fotografie trovate, creando nuove narrazioni e significati dal banale e dal trascurato.
Il suo lavoro sfida le nozioni tradizionali di fotografia e arte, sollevando interrogativi sul ruolo del fotografo, sul valore dell’immagine e sul potere del contesto.
Nel suo intervento, Kessels ha discusso dell’importanza della fotografia vernacolare come modo per preservare ricordi personali e collettivi e come fonte di ispirazione per artisti e fotografi.
Ha anche affrontato le sfide e le opportunità dell’era digitale, dove la proliferazione delle immagini ha portato a una paradossale perdita di significato e significato.
Il lavoro di Kessels è una testimonianza del potere dell’immagine trovata e del potenziale della fotografia vernacolare di sfidare e sovvertire le narrazioni dominanti del nostro tempo. Ricontestualizzando e reinterpretando queste immagini, Kessels crea nuovi significati e connessioni, invitandoci a vedere il mondo sotto una luce diversa.
Guardando al futuro della fotografia e dell’arte, il lavoro di Kessels ci ricorda l’importanza di preservare la nostra memoria collettiva e il valore del quotidiano.
Abbracciando il caos e la complessità dell’era digitale, Kessels ci mostra che c’è bellezza e significato da trovare nei luoghi più inaspettati.
Kessels fotografo che non fotografa, perché da anni è impegnato a lavorare su immagini private e anonime. Foto che spesso si ripetono in modo quasi ossessivo come quello di una signora centenaria che ha accumulato migliaia di immagini di lei, sempre ritratta mentre gioca al tiro a segno al Luna Park. Così come scatti dove spesso non succede nulla, di puro ricordo, e ancora immagini che contengono errori, perché per esempio sovraesposte.
“Siamo immersi nelle immagini e sono numerose quelle che non utilizziamo, ma che per me diventano interessanti”. Una ricerca antropologica quella di Kessels particolarmente affascinato dagli album di famiglia, tanto che dal 1997 ha acquistato qualcosa come 15mila album fotografici. Foto di tutti giorni, momenti quotidiani, ricorrenze, matrimoni, foto dei figli e dei propri animali domestici.
“Per me è emozionante vedere come le persone compongono i loro album. In genere la serie inizia con il primo incontro, prosegue con il matrimonio, poi il terzo, quarto e quinto album è dedicato esclusivamente al primo figlio”. Le famiglie con più figli finiscono con inserire le foto indistintamente all’interno degli altri album, mentre se non ci sono figli, si fotografano i cani (fino a 8 album). E se non ci sono né figli né cani il soggetto preferito è l’automobile.
Fotografie generate dalla stessa materialità delle foto, rimaste spesso conservate nei cassetti, e che assomigliano sempre di più a reperti archeologici di un’era che è destinata a scomparire, vista la progressiva e apparentemente inarrestabile smaterializzazione delle immagini.
Una rivoluzione prodotta dai profondi cambiamenti tecnologici, come l’intelligenza artificiale, ma anche nuovi strumenti quali NFT – non fungible token – basati sulla tecnologia blockchain, che garantisce tracciabilità e autenticità dell’oggetto a cui si riferiscono. Se ne è discusso nel talk “Il vintage digitale. Il caso NFT”, dove sono intervenuti Simone Arcagni, giornalista e docente universitario specializzato in nuovi media e cultura digitale, e Serena Tabacchi, Direttrice e Co-Fondatrice del MoCDA, Museo d’Arte Contemporanea Digitale, nato a Londra nel 2019.
NFT, come ha ricordato Tabacchi, che hanno acquisito notorietà proprio per il loro impiego nell’ambito artistico, un mondo che ora stanno contribuendo a modificare. “Le nuove tecnologie – rileva Tabacchi – stanno cambiando non solo il modo di esporre un’opera d’arte, ma di fruirne, e quindi la stessa professione del curatore, che deve essere in grado di dialogare con la parte tecnica per capire come usare al meglio i nuovi strumenti. E si stanno sviluppando nuove forme di mecenatismo, attraverso community digitali, che hanno dato visibilità ad artisti spesso sconosciuti dal mondo dell’arte tradizionale”.
Simone Arcagni ha sottolineato la necessità di interrogarsi su come orientare la tecnologia e sperimentare nel modo migliore. “Dobbiamo provare a immaginare un mondo post digitale, nel senso di provare a immettere concetti diversi, stressandone i confini, senza dare per scontato che le tecnologie che usiamo possano funzionare solo in un unico modo”. Una necessità tanto più stringente anche considerando il tema della sostenibilità, perché in futuro, “l’attuale uso del digitale rischia di essere disponibile solo per un miliardo di persone”.
15 Ottobre 2024