“Water Project” col Gruppo Africa in Papua Nuova Guinea 

“Water Project” col Gruppo Africa in Papua Nuova Guinea 

A chi mi chiede dove sono stato e cosa ho fatto, riesco solo a dire che da qualche settimana su di un’isola sperduta della già sperduta Papua Nuova Guinea, ci sono tante persone di alcuni villaggi primitivi che uscendo dalla loro capanna trovano una fontana dalla quale sgorga abbondante acqua potabile. Riesco solo a dire questo perchè credo che da solo possa bastare, ma anche perchè è difficile descrivere le emozioni così forti che ho provato tra quelle popolazioni, così come è difficile raccontare le dimensioni di quanto realizzato. 

Ma andiamo per ordine, per ordine alfabetico: “Baldino” Ubaldo Belingheri, Ennio Provera, Giovanmaria Grassi, Giuseppe “Giusi” Albrici, Lucio Tagliaferri e Vico Martinelli, l’unico non targato Bg. 

Il primo è presidente del Gruppo Africa Valdiscalve, gli altri sono soci o simpatizzanti. Li incontro davanti al check-in Air Emirates di Malpensa dove mi unisco a loro, su tutti mi colpisce Giusi che trascina un trolley verde pisello dal quale spunta un ammazzamosche a paletta giallo canarino… non ne vedevo così da più di 40 anni. Lui la malaria la combatte in quel modo ho pensato. Abbiamo in comune la destinazione e lo scopo, quello di costruire un acquedotto per il villaggio di Ulutuya, sull’isola di Goodenough in Papua Nuova Guinea. In questa impresa io sono un semplice osservatore, modesto relatore ma discreto fotografo e all’occorrenza cerco di rendermi utile anche in maniera più concreta. 

Il mio ricordo torna al 2006 quando, sull’isola di Sumba, pochi chilometri sopra l’Australia, avevo collaborato con l’amica Ann, Lucas e altre splendide persone alla costruzione di pozzi per la raccolta dell’acqua. La mia debole memoria, motivo per il quale sono costretto ma anche felice di scrivere il più possibile, mi permette solo di ricordare che gli appunti di viaggio e le foto che avevo scattato all’epoca erano state preziose per la tesi di un’amica di Torino, laureatasi a pieni voti. Ora, se poteva essere considerata lodevole quella iniziativa del progetto “Hope Sumba”, questa del Gruppo Africa è senza dubbio ciclopica… e non è la prima, nè sarà l’ultima. Lo scorso anno infatti ha realizzato un acquedotto di 14 chilometri a Watuluma per portare acqua potabile a oltre 2500 persone a pochi chilometri da questo di Ulutuya che darà da bere a 15 villaggi, ad una scuola media e tre elementari… 

Del resto chi non conosce la laboriosità e la generosità dei bergamaschi, dei muratori bergamaschi… leggenda vuole che se si trovano in due ad aspettare l’autobus, per ingannare l’attesa si mettono a costruire una pensilina in muratura, panchine comprese. 

Fondata da Baldino dietro incoraggiamento e sollecitazione della nostra comune amica Assunta, la Onlus Gruppo Africa di Vilminore in Val Di Scalve nasce nel 1988 e conta circa una cinquantina di soci. Baldino mi racconta di aver già realizzato una trentina di progetti come questo… e ci credo! Mi anticipa anche che per gli instancabili del Gruppo Africa, all’inizio del prossimo anno c’è in programma l’Eritrea. 

Ho conosciuto Ennio in occasione della cerimonia funebre del caro amico Gianfranco a Zanica, vicino a Bergamo. Con lui successivamente sono stato ospite del missionario Lorenzo Frosio, con Dino Panfilo ed altri amici a vario titolo impegnati nel sociale. C’erano anche due Cavalieri di Malta. Il loro motto recita così: “Nell’ordine non si resta senza il conforto della virtù, fuori chi sfoggia ricchezza, chi cerca posti privilegiati, chi si agita per vanagloria” firmato Conte Marullo Gran Cancelliere… nientemeno! 

Dino mi ha parlato un po’ della Papua dove suo fratello è Vescovo a Rabaul sull’isola di New Britain e mi ha descritto il viaggio Milano-Dubai, Dubai-Singapore, Singapore-Port Moresby, Port Moresby-Alotau, Alotau-Goodenough. Quest’ultima tratta in barca con un giorno di viaggio. 

Da qui a maturare la decisione di partire con loro è stato un attimo. Sono sicuro che Padre Sibi dall’India mi capirà e mi perdonerà se ancora una volta rimando la partenza per la sua associazione Vanaprastha di Bangalore. E’ dall’epoca in cui mi trovavo ospite di amici a Jakarta che cerco l’opportunità di visitare la PNG fuori dai normali circuiti turistici che peraltro non esistono. Ora che mi si presenta l’occasione non me la lascio certo sfuggire. Sempre Dino mi dice che non occorre portare tanta roba, tantomeno soldi perchè dove andremo non c’è nulla, assolutamente nulla! Saprò poi che il Dino non potrà essere dei nostri causa ernia discale che lo tormenta da tempo. 

Alcuni articoli poco confortanti a riguardo della estrema pericolosità di alcune località della PNG li trovo in rete… ma ho imparato a non credere più a certe informazioni terroristiche e decido di affidarmi semplicemente all’idea che ho sempre avuto della PNG, di un’isola che, anche se grande una volta e mezza l’Italia è per me inspiegabilmente piccola, misteriosa e sconosciuta. Trovo anche un trafiletto incoraggiante che cito testualmente: ”E’ il luogo ideale per chi parte con uno spirito avventuriero, per chi odia fare programmi e si sente soffocare dall’idea di prenotazioni, orari e visite guidate. Chi desidera andare perchè ha la mente libera o perchè desidera liberarla”. Chi cerca un viaggio on the road come piace tanto a me. Il resto viene da sè, basta vivere appieno lo spirito dell’improvvisazione. Così, dopo aver girato tutte le libreria di Milano, finalmente al Touring Club riesco a rimediare l’unica ed ultima guida della PNG in lingua inglese e che sembra addirittura già usata. 

Con i cinque bergamaschi e Vico di Caronno Pertusella, inizio il viaggio aereo. 

La fortuna inaspettata che ho avuto modo di descrivere nel racconto “il ciclone Jane” del volo Johannesburg-Madrid, sembra non abbandonarmi. Sull’aereo diretto a Singapore mi ritrovo infatti con le due più belle ragazze del volo sedute alla mia sinistra nella fila 33. 

Katrin e Meola, due splendide modelle australiane innamorate di una certa bevanda che consumano in abbondanza. La mia curiosità mi spinge a chiedere loro di cosa si tratta e scopro così l’esistenza dell’apple juice (succo di mela corretto vodka). 

Dopo poco, mentre il personale di bordo abbassa le tendine degli oblò, nel tipico dormiveglia che si consuma nella stanca luce dei voli intercontinentali, decido di andare a trovare gli altri amici alla fila 27 e da lì, pensando di far cosa gradita alle mie nuove compagne di viaggio, chiedo altri due apple juice al personale di bordo, poi torno a sedere di nuovo al mio posto per godermi la loro sorpresa. Trascorre un po’ di tempo ma niente apple juice… richiedo ad una hostess che mi garantisce di averli preparati e portati, ma dal momento che le due amiche non li hanno mai ricevuti me ne farà portare altri due, anzi tre. Passa un altro quarto d’ora ma niente. Richiedo ed ottengo la medesima assicurazione, già preparati e serviti. Così mi alzo, vado in coda all’aereo e parlo stavolta con uno stewart che sostiene di averli preparati personalmente (?). Ottengo comunque la promessa di altri tre cocktail, ma vai!!! 

Qualche minuto più tardi mi raggiunge Baldino alla fila 33 per dirmi di non mandare più aplle juice perchè altrimenti finisce che si ubriacano tutti.. 

E’ successo che il personale di bordo, che mi aveva visto seduto al posto libero della fila 27 quando ero stato a parlare con Baldino, ha sempre pensato che il mio posto fosse quello e così apple juice a volontà, inesorabilmente spediti agli amici del Gruppo Africa. 

Con le due amiche rimaste a bocca asciutta atterriamo a Singapore. 

Durante il successivo volo mi accordo con Baldino che al rientro ci si dovrà rivedere per perfezionare il perfezionabile in termini di convenzioni aeree ed altri aspetti della associazione, volontari inclusi. 

Arrivo a Port Moresby capitale della PNG con pochissimo tempo a disposizione per il transito, assolutamente insufficiente per ritiro bagagli, passaggio sotto ben tre diversi nastri, immigrazione e primo cambio valuta per tutti (1200 euro = 3306 Kina). Ad assisterci accorrono due angeli mandati dalla vicina missione Pime, che ci permettono di prendere al volo il tremolante bimotore Air Niughini ad eliche con destinazione Alotau. 

Ad Alotau i giorni in attesa della barca si susseguono rapidi, sotto il diluvio che imperversa nei paraggi della casa di brother Mario Fardin che ci ospita. La mitica “morning star”, la barca che solitamente traghetta gli aborigeni sugli sperduti villaggi dell’isola di Goodenough è in cantiere perchè durante l’ultimo viaggio ha imbarcato acqua e adesso siamo in balia dei servizi pubblici di Alotau, assolutamente inaffidabili. Un giorno dopo l’altro succede di tutto, imprevisti a non finire fino alla decisione finale di svuotare i quattro container a mano e di caricare tutto il materiale su di una chiatta, operazione che si è potuta realizzare grazie al prezioso contributo di una cinquantina di indigeni accorsi in nostro aiuto. 

Poi ci dividiamo. Baldino, Giovanmaria, Giusy e Vico partono subito con una barca mentre, con Ennio e Lucio io viaggerò domani sulla chiatta in compagnia del materiale. 

Il nome della barca è J-Rolau ed i nostri eroi si accomodano al suo interno, sedendosi sul bordo della stiva. Niente sedili o altro. Come se non bastasse la precaria sistemazione, al momento della partenza un fiume di gente prende letteralmente d’assalto la barca, che carica all’inverosimile riesce tuttavia a stare a galla. Sulla J-Rolau i nostri amici sono stipati come su di un tram quando diventa regno di palpeggiatori manomorta e borseggiatori manolesta, ma mi sono anche tornati in mente i poveri barconi che arrivano sulle coste di Lampedusa, l’immagine è la stessa. In questo stato l’imbarcazione resa ormai informe a causa delle teste ammassate che il tramonto rosso Africa ne delinea i contorni si mette in moto e, dondolando paurosamente prende il largo a fatica. La scia lasciata a pelo d’acqua fa pensare al percorso tracciato da un ubriaco in bicicletta. Niente fazzoletti sventolanti quindi, solo l’intesa che ci saremmo incontrati a Ulutuya la sera del giorno dopo. 

Durante la cena da Mario ricevo un sms dei nostri amici che, scherzosamente penso io, scrivono: “la barca prende fuoco, torniamo a riva!!!” 

Da Chez Mario non ci si scompone e prosegue la cena, ma dopo circa un’ora arriva una telefonata perentoria “siamo al porto, venite a prenderci!”. Tutt’altro che uno scherzo quindi… C’è stato un principio d’incendio al tubo di scarico, che qualche cervello illuminato aveva rivestito con del materiale infiammabile e il buon Vico si era già attivato calando un secchio per raccogliere acqua. Dalle loro facce capisco che lo spavento è stato forte e nessuno ha avuto il coraggio di pensare cosa sarebbe successo se fosse capitato qualche ora più tardi, in pieno oceano. 

Ci ritroviamo quindi ancora tutti insieme la notte del giorno dopo sul cargo “Samarai Murua” destinazione Watuluma con scalo a Bolubolu e Boiama. 

Sulla chiatta la scelta del giaciglio sul quale dormire è vasta, più o meno come in un hotel con tante stelle… Lucio e Ennio scelgono di dormire all’interno di un vano doccia artigianale destinato a Bolubolu, così da essere protetti in caso di intemperie. Gli altri un po’ ovunque… chi sopra ai giganteschi rotoli di tubi in gomma, chi preferisce il comfort dei pannelli gialli da ponteggio mentre qualcun altro trascorre l’intera notte girovagando qua le là per la chiatta. Strano che a nessuno sia venuta in mente la strategica poltrona-carriola, ideata lo scorso anno da un altro amico del gruppo che probabilmente avrà registrato il brevetto. Vico ha appeso la sua amaca da un lato allo specchietto di un trattore anch’esso imbarcato e dall’altro alla balaustra della nave… Qualche ora più tardi io decido di unirmi a Lucio e Ennio nella doccia, che potrebbe tranquillamente essere omologata per tre persone. 

Durante il viaggio scopro che a bordo vi sono due poliziotti. lo scopro quando ne vedo uno correre lungo il bordo superiore della chiatta armato di un cannocchiale e di un vecchio fucile. Sta controllando i movimenti di un’imbarcazione di passaggio. Dice che da queste parti c’è il pericolo dei pirati e meno male che quelli non lo erano, perchè se avesse dovuto sparare, quell’archibugio gli sarebbe esploso in faccia. Gli chiedo di mostrarmi l’arnese che nel passaggio di mano si smonta e cade in pezzi. Con Baldino e Giusy abbiamo impiegato una buona mezzora per rimontaglielo e durante i vari tentativi ci rotolavamo per terra dalle risate. 

Ecco Bolu Bolu. C’è da scaricare un enorme generatore che, anche se non si sa quando, dovrà illuminare tutto il villaggio… molta gente ma poche idee su come operare. Dopo una serie di esperimenti falliti, la direzione dei lavori passa tacitamente ai due coi quali si è montato il giocattolo del poliziotto imbranato. I due, manco a dirlo compiono felicemente l’impresa in pochi minuti, semplicemente utilizzando dei tronchi sui quali far scorrere il gigante di luce. Torniamo quindi sull’imbarcazione e scopriamo che il comandante si è reso latitante. Il motivo lo abbiamo subito compreso. La sua intenzione è quella di far passare ancora del tempo così da raccontarci che col buio non è possibile l’attracco a Boiama, causa l’impossibilità di vedere i banchi di corallo che si spingono fino a pochi metri dalla riva. In questo modo può fatturare una giornata in più di noleggio della chiatta. Alla fine il capitano l’ha vinta nonostante le nostre rimostranze e non possiamo neppure fare la voce grossa perchè lui è il più alto in grado e dalla sua ci sono anche i pericolosi gendarmi armati di tutto punto. 

Non è la prima volta che incontro degli ostacoli sdoganando aiuti umanitari o, come in questo caso trasportando materiale per un acquedotto là dove non c’è acqua. Ogni volta mi torna alla mente la medesima domanda: non sarà che noi occidentali stiamo invadendo il territorio di questa gente? chi ci ha mai chiesto niente… non è che per caso noi veniamo in questi posti per portare un po’ del nostro progresso, del quale saprebbero e magari vorrebbero fare a meno? Lo stesso progresso che poi noi stessi rinneghiamo nelle confortevoli città dove viviamo? Come sempre per raggiungere le tribù indigene dell’interno, miti e amorevoli, occorre passare dai pescecani corrotti che abitano la civiltà intorno e controllano. Scopro che è una regola e che vale ovunque, come mi era capitato col container alla dogana di Lima, aiuti umanitari destinati ai disabili di Huanuco nelle ande peruane… 

Ma per citare il buon vecchio Bukowski decido che la maggior influenza su di me la esercito io stesso e allora vengo pervaso da una forza indefinibile che mi aiuta a tirare avanti. Ma non è sempre facile e non è sempre così. Cioè non sempre mi riesce. 

Siamo ospiti di father Giovanni nella missione di Bolubolu dove io trascorro una notte infernale con la febbre a 39 dovuta ad un colpo di sole. Abbiamo cercato di dormire tutti per terra al buio e senza zanzariere. Il giorno dopo, alle 4 si riparte con lo stesso identico buio del tardo pomeriggio del giorno prima… quindi la stessa scarsa possibilità di vedere i fondali e attraccare. Ho suggerito a Mario ad Alotau di non pagare la giornata in più e ora so che è alle prese con la contestazione, ma temo andrà per le lunghe e chissà con quale risultato. 

Boiama. Scarico di tutto il materiale a cura di quasi tutti gli abitanti del villaggio affacciato sul mare. Ci hanno accolto con la cerimonia dell’assalto. Giovani vestiti solo di foglie verdi ed armati di lance ci hanno danzato intorno ed ho saputo poi che non si è trattato di una farsa a beneficio nostro, ma piuttosto il loro modo di purificarci, di scacciare da noi lo spirito del male prima di entrare in contatto con loro.

Forse perchè il mondo non si aspetta grandi cose dalla PNG e dai papuani nessuna competizione, possono permettersi il lusso di continuare a crederci. Così come credono ancora alla sacralità di una certa montagna, che non può essere violata. E se anche qualche esploratore ha dimostrato loro che la scoperta della stessa montagna non ha comportato l’essere fulminato dagli dei, non è cambiato niente. Così come ritengono che quando accade una tragedia come una morte o una malattia, si debba anzitutto ricercare l’artefice di quel maleficio, piuttosto che la causa. 

Adesso devono fare i conti con la nostra presenza e quello che siamo venuti a fare. Per tutti i bimbi dei villaggi interessati inizia qui il primo film della rassegna cinematografica che durerà più di due mesi, dove noi italiani siamo gli attori sconosciuti, con la nostra pelle bianca che fa paura ai neonati ed i nostri mezzi rumorosi che invece piacciono tanto a tutti… Ci saltano sopra e si lasciano portare fino a fine corsa per poi tornare a piedi, non importa per dove o da dove. 

Qui a Boiama conosco il brillante father John, che a turno ci carica sul suo dinghi. Il dinghi è una piccola imbarcazione a motore con la quale ci traghetta a Watuluma dove ci sistemiamo nelle camerette dei volontari di Brother Lino e Jastine. Poi ad Ulutuya, villaggio che si sviluppa anche per buona parte in montagna. Siamo finalmente arrivati. Siamo a casa. 

E mentre gli spiriti del bene e quelli del male decidono ogni cosa sull’isola, con l’aiuto di molti giovani papuani, di buona lena gli amici del Gruppo Africa hanno potuto recuperare il tempo perduto ad Alotau. 

Individuata la sorgente durante un sopralluogo effettuato da Dino e Baldino qualche mese fa, ora proseguono i lavori di interramento della lunga conduttura che si dirama per quasi venti chilometri a cura di Lucio e Vico, sempre con l’aiuto di volontari del posto. 

Sabato primo ottobre ad Ulutuya Baldino, Giusi e Giovanmaria hanno ultimato l’armatura per le pareti della vasca principale di accumulo. Lunedì la gettata, la seconda gettata dopo quella della gigantesca soletta. Un gran dispendio di forze ed una cinquantina di papuani a disposizione per entrambe le fasi della costruzione. Per tutti una t-short e la nostra immensa gratitudine. La vasca conterrà 80.000 litri di acqua, e lo ripeto, di acqua potabile! Prima del collegamento alle condutture si è necessariamente dovuto portare un tubo provvisorio che comunque regala da subito acqua potabile a tutti e per tutti gli usi consentiti. Chi per bere, chi per lavare i piatti o per la doccia. Noi per la malta ed i bambini naturalmente per giocare e ringraziare il cielo. 

E’ doveroso un breve cenno sull’entità dei lavori e per fare questo prenderò alcuni dati dalla relazione del buon Ennio Provera, sacerdote insegnante di parecchie discipline presso il seminario di Bergamo ed esorcista a tempo perso. Della serie se sono normali non li vogliamo… scherzo naturalmente! Ennio è una brava persona con la quale avrò modo di confrontarmi simpaticamente in varie occasioni. Il tema sempre lo stesso: la sua fede e la mia… Don Camillo e Peppone!. Ripensando al buon Ennio mi viene in mente che durante una della tante serate spese a dissertare su tutto, abbiamo parlato proprio di una sua relazione su questa nostra avventura, uno scritto che ha da poco ultimato. Gli faccio amorevolmente osservare quanto a mio parere fosse troppo preciso e puntuale, un diario inappuntabile, a differenza di come piace scrivere a me… un po’ alla rinfusa. Ennio, che ha letto tutti i miei precedenti racconti mi risponde così: “amico, io ho una cultura scientifica e scrivo così. Io mi soffermo sulle cose tecniche.. tu descrivi i sentimenti… vedi, è la differenza che c’è fra la scienza e l’arte”. Senza volerlo forse, il buon Ennio mi ha fatto un grande complimento. 

Ma torniamo ai lavori. Il progetto esecutivo è stato affidato ad un ingegnere italiano che ha prestato la sua opera a titolo gratuito. Dalla sorgente alla vasca principale di accumulo della capacità di 85 metri cubi, sono stati posti 2300 metri di tubo di vario diametro. Dalla vasca partono poi le diramazioni per tutti i 15 villaggi sottostanti per una rete di svariati chilometri in più direzioni, intervallata da fontane e rubinetti. Un’opera colossale se si pensa al tempo a disposizione per eseguire i lavori di muratura delle vasche e delle fontane, per scavare i canali nei quali posizionare ed interrare i grossi tubi dopo averli saldati, senza citare imprevisti cambi di percorso e l’allargamento della rete approvata da father John, al fine di accontentare un po’ tutti, compreso qualche mustafà. Sono simpaticamente chiamati così i capi villaggio, gli stregoni. 

Invece Padre John Berchman è un giovane missionario indiano, diventato sacerdote a 36 anni, dopo aver lavorato per alcuni anni a fianco di Madre Teresa di Calcutta. Ora è il punto di riferimento per tutte le missioni Pime della PNG ed opera dalla missione di Watuluma dove c’è una scuola per centinaia di bimbi e ragazzi ed un ospedale con 70 posti letto. 

A proposito di ospedale, oggi è stata una lunga giornata. Al ritorno, sulla solita strada sterrata e piena di insidie incontriamo una mamma disperata. Giona, questo il nome del figlio che ha pensato bene di farsi trovare sotto una palma proprio nell’istante in cui stava cadendo un coconut che lo ha centrato in pieno sulla testa. Un altro giorno abbiamo accompagnato all’ospedale Irine, già sofferente di scabbia, è stata abbattuta con una pietra mentre si trovava su un albero di mango, a lanciare il sasso un cecchino affamato. La povera, oltre alla fronte interessata da una profonda ferita, nella caduta si è fratturata un braccio. Tempo addietro è stata la volta di Joseph, un bambino simpaticissimo ma un po’ discolo che nel tentativo di spaccare un cocco con il macete si è tranciato di netto parte del pollice della mano sinistra. Tutti questi bambini soccorsi per caso, hanno trovato in tutto il nostro gruppo un profondo senso di solidarietà ed amicizia. C’è chi, osando un po’ di più si presenta tutte le mattine davanti al casone di Lino per fare colazione con noi. E il sorriso aperto e leale di Giusi quando mi ricorda ogni tanto questi momenti indimenticabili… La gioia di questa condivisione è il sentimento che anima questi bimbi. Per un giorno si sentono importanti e fanno colazione su di un tavolo… e quando mai gli ricapita?. La felicità la si può leggere nei loro occhi… poi c’è chi si domanda se è giusto. Siamo in una terra dove crescono in natura certe piante che da noi ci vogliono 20 euro solo per guardarle. In queste terre io mi sento un imperatore, mi sento in debito con non so chi per questa felicità e penso che in cambio dovrò dare qualche giorno della mia vita, morire prima per intenderci. Invece la vita più breve ce l’hanno proprio queste persone. E allora, perchè non far sentire per un giorno imperatori anche loro? Se penso a quello che avrei voluto io per me stesso alla loro età non posso fare a meno di regalare e continuare a regalare… se poi in cambio riesco a bearmi di un sorriso da chi domani non lo potrà più dare a nessuno, è giustissimo! Ma poi mi passa. Anzi non mi passa perchè mentre sto pensando a questa cosa Irine, con la sua scabbia, il braccio ingessato e la testa ancora fasciata è tornata solo per regalarmi un ananas gigante, poi è scomparsa senza darmi neppure il tempo di cercare qualcosa da regalarle, come fa a passami? 

Ma torniamo all’ospedale. E’ la volta del “big boss” assalito da un maiale che lo ha addentato ad un braccio e ad una gamba. Big boss risiede nella parte alta del villaggio e possiede una capanna a tre piani, dotata di ogni comfort. Saloni per essicamento tabacco ed una tavola gialla per armature sopra cui dormire, pannello che ha pensato bene di sottrarre dal nostro cantiere. Ma lui è il capo… 

Dicevo di Lino, Lino è un ottimo cuoco e sa fare di tutto, attualmente riveste anche la carica di impresario edile. 

Ricordo il primo mattino, nella sua enorme abitazione. Mi sono svegliato alle sei e c’era già un gran movimento. Ho pensato che fosse perchè il primo giorno occorre svegliarsi a quest’ora per non so quale incomprensibile ragione. 

Il giorno dopo scopro con grande consolazione che in realtà la sveglia non è alle sei ma alle cinque e trenta. La colazione è alle sei. 

La forza del bene come amabilmente ho battezzato questi intrepidi uomini non si ferma davanti a niente. Ci sono le zanzare nell’enorme atrio tra le due costruzioni dove dormiamo? Nessuna paura, sette o otto travi di legno collocate abilmente dall’esterno come sanno fare certi funamboli al circo, qualche ondulato trasparente da fissare acrobaticamente sul tetto, una rete antizanzare che viene fissata al telaio lungo le due pareti e il pericolo non c’è più… Detta così mi è sembrata una sparata del Baldino, degno rappresentante della stirpe dei costruttori di muretto alla fermata del bus. 

Ebbene, al mio rientro da Alotau il lavoro è stato fatto e finito nel migliore dei modi. 

E gli “sponsor”, e il materiale… materiale donato da aziende o comunque a prezzo di favore e trasportato sulla mitica chiatta. Due escavatori sono già sul posto, chilometri di tubi costosissimi, pannelli di legno per soletta, ferri ed attrezzi di ogni genere ed in grandissima quantità, carriole, badili, secchi, picconi, quattro generatori di corrente, motoseghe, un motorino, una motocarriola e mille utensili vari. La quantità del materiale è tale che, quando c’è stato bisogno di prolungare l’acquedotto, quando cioè si è pensato: ma come, c’è un villaggio in prossimità del mare a Boiama, a soli tre chilometri, vuoi non portare l’acqua potabile anche da loro? Detto fatto! 

Poi interi bancali di generi alimentari perchè il Gruppo non può e non vuole pesare sul bilancio di nessuno e si porta da casa anche i viveri per tutto il tempo necessaio, compreso il frigorifero combinato per la loro conservazione. Ma visto che non abbiamo disdegnato l’eccellente cucina di Lino che un paio di volte a settimana è a base di aragosta… tutta la roba portata alla fine si lascia sul posto. 

Dicevo del mio rientro ad Alotau. Sono tornato ad Alotau perchè, insieme ad Ennio voglio visitare la missione di Padre Lino Pedercini a Normanbi. Viaggio pauroso. Otto ore con mare in burrasca e altre tre il giorno dopo sulla tratta Alotau-East Cape. Ennio a questo punto cede e non vuole più saperne di mare, di isole e di niente altro. Siamo perciò rientrati ad Alotau con il camion-autobus stracarico di betel nuts (la droga locale) ed abbiamo atteso il momento dei saluti all’aeroporto di Alotau. Ennio e Lucio se ne tornano in Italia ed io riparto per Watuluma a raggiungere gli amici del Gruppo Africa. Per il viaggio scelgo la “confortevole” morning star, anche perchè è l’unica possibilità che ho ed il capitano Andrew, lui si molto gentile, mi riserva un posto in una delle due cabine disponibili. Durante la notte però non uso la brandina a mia disposizione perchè sulla barca c’è anche sister Carine. Proveniente dal Camerun lavora all’ospedale di Watuluma e trascorro così intere ore in compagnia della sua piacevole conversazione. 

Sono di nuovo a casa e mi sono svegliato da pochi minuti. Baldino mi dice che era certo che sarei tornato… mi fa piacere questa cosa. Mi dice così perchè da Alotau avrei dovuto contattare telefonicamente Port Moresby dove c’è l’amica Laura, dirigente medico dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che avrebbe potuto ripartire con me alla volta di Watuluma. C’era quindi la possibilità che mi potessi unire a lei nell’attività che sta svolgendo per conto dell’OMS e che la vedrà impegnata nei prossimi due anni in giro per tutta l’isola. Da quello che ho capito dovrà prendere visione e relazionare sullo stato della sanità in PNG e, conoscendola, sono certo che alla fine saprà tradurre tutto in grandi benefici per questa gente. Tutto rimandato però perchè Laura, con l’amico Franco è impegnata in un congresso a Sidney in Australia e ne avrà per molti giorni ancora. Ho lasciato a lei tutti i riferimenti dell’ospedale di Watuluma e delle persone conosciute sia a Watuluma che ad Ulutuya, così da semplificarle il compito quando deciderà di visitare Goodenough. 

Se mi legge come credo, vorrei che mi spiegasse, come ha fatto father John, cosa si può fare per i bimbi che, quando malauguratamente si procurano delle piccole ferite, vengono infettati da certe mosche che individuano anche la più piccola puntura di insetto per deporvi le uova. Da piccola ferita si trasforma in grande ulcera, con cicatrici enormi ed indelebili. 

Parlando con Baldino durante uno dei quattro voli dell’andata, avevo avuto la sensazione che desiderasse conoscere meglio tanti aspetti che riguardano la gestione di un’associazione, il modo migliore per attingere a fondi istituzionali o attraverso le fondazioni, avere opportunità migliori ad esempio per ciò che riguarda la gestione delle spese e opportunità di convenzioni ad esempio con le compagnie aeree ecc… Avevo cioè creduto che ci fosse bisogno di migliorare qualcosa all’interno della Onlus. 

Per questa ragione avevo raccontato quelle che sono state le mie esperienze vissute in questi ultimi sette anni, dedicati all’associazionismo e più in generale al volontariato. Intravedevo un largo margine di collaborazione e di condivisione dei percorsi fin qui sperimentati. 

E’ trascorso solo un mese da quel giorno ed ho realizzato che il Gruppo Africa va bene così. Tutto a questo mondo è migliorabile, certamente, ma non nella misura in cui avevo pensato. E’ una gran bella struttura, semplice, nè grande nè piccola, capace di tante imprese come quella che sto descrivendo disordinatamente… 

Continuerò naturalmente ad essere disponibile per quanto potrò modestamente suggerire e solo qualora lo ritenesse opportuno, ma secondo me non c’è gran che da aggiungere o rivedere. 

Il Gruppo Africa è grande così com’è! 

Al mattino con la sveglia ho un sacco di idee in testa, poi si vive l’intensità gioiosa e tranquilla del villaggio papuano e si dimentica tutto… come in una rinascita, dove una partita di calcio riesce a piacere anche a me! Un canto in una messa può piacere anche a me che odio il calcio e che sono magari cristiano ma non proprio cattolico praticante. Rispetto persino chi nella capanna tiene in gabbia il kas kas, una spece di topo grande come un grande coniglio con gli occhi che escono dalle orbite. 

Con Giovanmaria ho provato ieri l’ebbrezza del betel nut, sotto la esperta guida di Philip che ci ha procurato tutto il necessario… esperienza catastrofica ed irripetibile! Ho poi usato il bagno del villaggio, un buco nel terreno circondato da canne di bambu infilzate in terra e legate fra loro con una corda ricavata dalla corteccia di banano. E le foglie, sempre di banano, tagliate sapientemente col macete in piccoli quadratini, infilati tra un bambu e l’altro. Tutto ciò che noi facciamo con la carta qui si fa con le foglie di banano.. anche quello che in qualche zona del mondo si fa con la carta da giornale. Qui la carta da giornale viene usata per farci cartine da sigaretta. Ad Alotau vendono fogli di giornale già tagliato ad hoc. E Philip, l’amico Philip, un capovillaggio che mi è piaciuto subito… un po’ meno a Baldino che è un puro. 

Philip è un mustafà che, mi spiega il buon father John, in questa terra significa un poco mafiosetto. Ma va bene così, ho sempre ottenuto tutto ciò che ci serviva solo rivolgendomi a lui. A lui che durante gli ultimi tre giorni è scomparso… avremmo dovuto rivedere insieme tutto il percorso degli scavi per verificare che siano state fatte le coperture con sufficente materiale in modo da mantenere l’acqua costantemente fresca. E’ scomparso e a me piace pensare che sia perchè odia gli addii… un po’ come il sottoscrito. L’ultima volta l’ho visto alla cerimonia per l’inaugurazione dell’acquedotto e in quella occasione mi ha messo al collo una collana fatta con le sue mani e due bracciali che ha fatto sua moglie per me. Mi ha commosso così come si è commosso lui mentre traduceva nel loro linguaggio il discorso di father John e mentre molti della sua tribu ci portavano regali, composti perlopiù da oggetti fatti a mano con legno e foglie essicate. Qualcuno ha pure ringraziato per iscritto. Per la festa hanno ucciso con le lance un maiale ed una enorme tartaruga, fuochi e cucina tradizionale a base di radici.. magnoca, banane fritte, manghi lessati ecc… Balli e canti, musica. Se tutte le parole contenute in un vocabolario significassero una grande e piacevole emozione, non basterebbero per descrivere quella provata in questa occasione. Una cosa in grande e molto toccante. Come si fa ad aver voglia di tornare a casa? Sulla grande vasca sventolano ora tre bandiere, una della Papua Nuova Guinea, una dello stato di Milne Bay, la terza Italiana. 

La quotidianità e il viaggio Watuluma-Ulutuya, i bimbi che spuntano da ogni dove correndo nell’erba alta e urlando il loro ciao “cafoi”. Fanno l’impossibile per raggiungerci alla macchina e regalarci un mango, un cocco o un altro frutto… magari tutto quello che hanno trovato e che sarebbe servito per il loro frugale pranzo. Chi non ha nulla agita la mano in segno di saluto, ma di più, ci trasmettono il loro gusto nel vederci qui. Il loro piacere di non sapere chi siamo ma che gli piace che noi siamo qui. Tendono le braccia alla disperata per avere un contatto con noi, con l’uomo bianco. Quelle urla di gioia e il loro sorriso gratuito, quel calore umano leale e sincero è una delle cose che maggiormente mi manca e che ricordo con tanta nostalgia. 

E’ anche così che ci si confonde e si finisce a Bolubolu. 

Durante una delle tante ispezioni fatte con Vico o, come in questo caso con Giusi e Baldino, ad un certo punto del cammino ci siamo dovuti fermare per riparare un giunto. Ci siamo accorti però che manca il giratubi e mi offro di andarlo a prendere in magazzino. Senza pensare ad altro ho immediatamente preso il truck, ho messo in moto e via. Il truck è alto e c’è la possibilità di inserire le quattro ruote motrici così da permettermi di attraversare fiumi e di superare enormi avvallamenti. Viaggio così per circa una decina di chilometri ma il paesaggio non mi è più tanto familiare, eppure è una strada che percorriamo quasi tutti i giorni… osservo meglio fino al punto di attraversamento di un ennesimo fiume con acqua alta e che non mi sembra di aver mai visto… Fermo il truck e chiedo all’amico Terence che non si è mai mosso da sopra il cassone come mai non si arriva allo “store”, che mi è sempre sembrato tanto vicino. Lui si guarda attorno e con tutta calma mi dice che il magazzino è a Ulutuya, una decina di chilometri indietro. Stavo percorrendo la strada che mi avrebbe portato dopo altri venti chilometri dritto dritto a Bolubolu… Baldino e Giusi mi hanno ricordato questo episodio un sacco di volte e ripensandoci ancora adesso mi viene da ridere a crepapelle. A loro pure! 

Domenica sull’isola deserta. Father John ci accompagna con il dinghi papale come lo chiama lui, sull’isola che lo scorso anno il Gruppo Africa aveva regalato a Giusi. E’ virtualmente la sua isola e oggi ci ha ospitato per un intero giorno. Un paradiso! La beatitudine di muoversi su di un suolo mai calpestato… Paradiso perchè non c’è nessuno? Per la verità io vivo in un paradiso anche quando sono circondato da questa gente, specialmente se penso che prima di partire qualcuno mi ha detto di stare attento ai cacciatori di teste… Forse è utile stare attenti agli animali, a quelli si. Alle mosche della sabbia, le famigerate sand fly… l’altro giorno camminando in una specie di palude dove l’acqua mi arrivava alle ginocchia, ho incrociato un serpentello marino, arancione e velocissimo. L’ho inseguito e fotografato senza pensare ad altro, neppure al fatto che avrebbe potuto essere pericoloso. Dopo il cobra della Tanzania è il secondo serpente che incontro sulla mia strada senza danno. 

Adesso mi devo scusare coi lavoratori bergamaschi e non, per il fatto che forse ho trascurato qualche aspetto tecnico dell’operazione “water project” ma come già detto non ho una formazione scientifica… “è la differenza che c’è fra la scienza e l’arte”. Parola dell’amico Ennio. Poi c’è l’altra riflessione che conferma questo… Qualcuno ha scritto che “nessuno tranne noi stessi può impedirci di scrivere come vogliamo” pur sapendo che si potrebbe anche vivere discretamente senza libri ma non senza fogne. Ciao Ennio! 

Il lavoro è ultimato, la conferma e quasi il simbolo credo possa essere rappresentato dalla grande tank da 80mila litri, dalla piccola tank e da quella di Bidole, dall’analisi dell’acqua prelevata alla sorgente di Ulutuya ed eseguita dal buon tecnico Humphrey del nostro ospedale, che dichiara la purezza dell’acqua. 

Grazie al medesimo lavoro fatto per l’acquedotto di Watuluma lo scorso anno, si è azzerata la frequenza dei ricoveri per disturbi dovuti all’assunzione di acqua non potabile. Ho scherzosamente proposto a Baldino, l’uomo più buono del mondo, di creare qui delle terme, invece lui mi dice che domani dovremo andare a Bidole, lungo il torrente a misurare la portata dell’acqua. Ha in mente per il suo prossimo futuro, di costruire nientemeno che una centrale elettrica. E siccome conosco Baldino io la vedo già fatta. Il più bel regalo però me lo ha fatto dicendomi che non posso mancare il prossimo anno in Eritrea… e ci sarò! 

Il tempo è scaduto così come il permesso di soggiorno. 

E’ ora di tornare. Per darmi coraggio penso che comunque anch’io ho qualcosa per cui mettermi in ordine. Per fortuna c’è per tutti una ragione per la quale si preferisce presentarsi in ordine. Una donna è quasi sempre un buon motivo. 

Però non mi aiutano i commenti volgari e sguaiati di certi giovani che siedono davanti alla nostra fila sull’ultimo volo Dubai-Milano… Persone che solo apparentemente parlano fra loro, perchè non si sono mai accorti che non c’è nessuno che ascolta. E’ una continua gara a chi cerca di dire qualcosa che possa fare sensazione o stupore agli altri e lo fanno senza accorgersi che non c’è nessuno dall’altra parte… come un telefono che non funziona… ma perchè? 

E’ stata invece molto appezzata la cortesia di Bishop Francesco Panfilo, che ringraziamo sentitamente per averci voluto incontrare ed ospitare nell’elegante Centro Salesiano Don Bosco, durante il nostro incontro a Port Moresby. 

E come per tutte le esperienze positive anche stavolta il tempo è volato. Sono partito con cinque tra i più valorosi esponenti del Gruppo Africa e non sono mai riuscito a fotografare uno di loro mentre riposa. Probabilmente perchè non dormono mai… sarebbe tempo perso! Ma le giornate trascorse in loro compagnia sono state molto piacevoli, indimenticabili. 

Sono certo che se ci fosse stata una alternanza con altri elementi, certamente non sarebbe stata la stessa cosa. Avrebbero potuto giungere al loro posto personaggi a dir poco ingombranti, che nulla hanno a che vedere con lo spirito del Gruppo Africa, del volontariato e più in generale dello spirito che dovrebbe animare noi volontari. Quando trovi il piatto doccia pieno di schiuma profumata, dove fino all’altro giorno scorazzavano felici scarafoni o ragni regolarmente castigati dal buon Vico… Quando non puoi entrare perchè il pavimento è bagnato e quando scopri la tavoletta del water abbassata…. Ai ai ai!!! Solo i cultori del rutto libero alla Fantozzi sanno quanto può essere pericolosa quella tavoletta abbassata… perciò mi piace pensare che sia finita così! 

Siulè la kaina!!! Cafoi. (grazie tante!!! Ciao) Fer 

 “water project” Papua Nuova Guinea set ott nov 11 testo e foto ferruccio – cooperazione internazionale milano – volontario e corrispondente estero +39 348 8279 062 mail ferbrambi@gmail.com (1)