Oggi vi presentiamo: Riccardo Melzi Photographer

Oggi vi presentiamo: Riccardo Melzi Photographer

Perché e come ho iniziato a fotografare:
Inizia a fotografare nel corso dei suoi viaggi, in particolare in Asia e nel Subcontinente Indiano.


Vive e lavora a Segrate (Milano) dove si occupa di stampa fotografica fine art. Svolge inoltre l’attività di fotografo free lance in collaborazione con WRM Milano.

Riconoscimenti ottenuti nel campo della fotografia:
Nel 2014 ha organizzato la mostra collettiva “Kumbh Mela: the human roar” presso il Museo Storico di Bergamo, esponendo anche suoi scatti ed ottenendo un buon successo di pubblico e critica.


Nel 2018 la sua prima personale presso Spazio Sinergie Milano, con la raccolta fotografica “How to see” editata in collaborazione con Iannis Kazzordidis.


Nel’ottobre del 2018 espone il racconto di viaggio “Afghanistan: the sleeping dragon” nell’ambito del circuito OFF del Festival della Fotografia Etica di Lodi.


Nel marzo 2019 collabora in qualità di editor alla pubblicazione del volume “20′ to Milan” di Giancarlo Carnieli, edito da Massimo Fiameni.


Nel luglio 2019 è tra i finalisti del World Report Award – Documenting Humanity (Festival della Fotografia Etica di Lodi), categoria Single Shot; la foto selezionata sarà esposta in una mostra nel contesto del circuito ufficiale del FFE 2019.

Titolo del primo lavoro presentato:
Gitanos (Premiato dalla giuria)

Descrizione del lavoro presentato:
Gitanos
Il 24 maggio Saintes-Maries-de-la-Mer richiama Rom e Sinti da tutto il mondo per una festa colorata in riva al mare tra musica, danze e preghiere.

In Camargue la natura ha mantenuto, nei secoli, tutti i suoi diritti. Un’immensa riserva di vita per gli animali, una bellezza selvaggia fatta di paesaggi dove vivono cavalli bianchi, tori e fenicotteri.

La Camargue si conosce e si respira sul posto tra la salsedine del mare e le paludi stagnanti, il Mistral che soffia indisturbato e la sua gente che non è solo quella che qui ci abita, ma è anche quella che qui torna perché ne sente il richiamo.

Quello della sua anima più autentica e incondizionata che si respira il 24 maggio di ogni anno quando Saintes-Maries-de-la-Mer celebra santa Sara e le Sante Marie richiamando, tra le strade di questo piccolo villaggio che sorge dove il Rodano abbraccia il Mediterraneo, la gens du voyage di tutto il mondo.


In questo periodo la Camargue si veste della sua ospitalità più pura fatta di umanità e di rispetto, di fede e di spirito, ma anche di tradizioni e di festa capaci di raccontare per intere settimane la storia centenaria di vecchi carrozzoni e di gitani che qui vengono in pellegrinaggio sin dalla fine dell’Ottocento.


Saintes-Maries-de-la-Mer deve il suo nome, secondo la tradizione, a Maria Jacobé e a Maria Salomé, entrambe parenti di Gesù. Cacciate dalla Giudea furono messe su una barca senza remi e, guidate dalla Provvidenza, giunsero sulle rive della Camargue insieme a Lazzaro, Maria Maddalena e altri discepoli: con loro iniziò l’evangelizzazione della Francia che cominciò proprio nella valle del Rodano.


Le Sante Marie rimasero in questo luogo che porta il loro nome e diffusero la fede cristiana tra la gente del paese e gli zingari che qui già vivevano. A questa storia si lega quella di santa Sara: per alcuni un’ancella delle Sante Marie che arrivò sulla barca insieme a loro; per altri una nobile camarguaise che le accolse e che poi si convertì al cristianesimo.


Ma nonostante esistano tradizioni diverse sulla sua figura, per gli zingari di tutto il mondo lei è la loro Protettrice: per questo, da tempo immemore, il 24 maggio la celebrano in un pellegrinaggio dove la forza della loro musica e della loro libertà si fonde con quella della fede più pura ricordando a tutti che, su questa terra, siamo tutti viaggiatori.


La processione
Mentre le strade per giorni brulicano di gitani che suonano e ballano al ritmo di violini, fisarmoniche e chitarre, la sera della veglia i canti riecheggiano anche all’interno del Santuario Notre Dame de la Mer dove nella piccola cripta si trova la statua di Sara la nera. E l’eco del pellegrinaggio è un susseguirsi di emozioni fatte di festeggiamenti e profonda introspezione.

I colori, i vestiti e le preghiere dei gitani si intrecciano con quelli dei turisti, dei gardian a cavallo, delle arlésienne nel costume tradizionale, dei camarguaise che oltre a celebrare Sara si preparano per la processione delle Sante Marie del giorno successivo.

Il 24 mattina le chasses, dove furono deposte le reliquie delle Sante, scendono dalla cappella alta grazie a corde adornate di fiori dai gitani, mentre sotto, dietro l’altare, di mano in mano arrivano le chitarre dei Manouches, dei Rom, dei Sinti, dei Voyageur e la chiesa, stracolma, risuona di quei canti in cui gioia e preghiera sono una cosa sola.
Fuori, i gardian a cavallo attendono la statua di Sara portata dagli zingari fino al mare, la scortano e la seguono insieme ai pellegrini sulla spiaggia, nell’acqua, fino al suo nuovo ingresso nella cripta dove viene venerata tutto l’anno.

Sara La Kâli è abbellita da tanti vestiti che corrispondono alle preghiere dei rom della comunità locale mentre migliaia di candele rendono l’aria della cripta irrespirabile dal calore che emanano.

Ma l’energia che racchiudono quelle luci e quelle preghiere testimoniano anche le discriminazioni che per anni in questi luoghi i gitani subirono: fu solo grazie al marchese Baroncelli che a partire dal 1935 ai gitani fu riconosciuto il diritto di onorare pubblicamente la loro patrona.

A lui sono dedicate le commemorazioni del 26 maggio quando, vicino alla sua tomba sulla spiaggia di Saintes-Maries, il mare accompagna il suono dei violini che con la musica rendono omaggio a chi si è battuto per le minoranze e alle vittime delle persecuzioni a cui furono costretti nel mondo i gitani: dalla schiavitù in Romania ai 400 mila zingari uccisi nei lager nazisti.

Titolo del secondo lavoro presentato:
In viaggio

Descrizione del lavoro presentato:
IN VIAGGIO

“La vita è un viaggio. Siamo passeggeri di un treno chiamato vita e viviamo in un momento chiamato adesso.” – Prem Rawat, Times of India, 2004.
“La vita in India ha i caratteri dell’insopportabilità.” – Pier Paolo Pasolini, L’odore dell’India, 1961.

Il sistema ferroviario indiano è gigantesco: i treni sono il principale mezzo di trasporto dell’India, che ha quasi un miliardo e mezzo di abitanti.

Oltre ai normali spostamenti quotidiani della popolazione, la tradizione culturale dell’India prevede che i milioni di persone che vivono lontano dai parenti vadano a trovarli di frequente per eventi familiari come le nascite, le feste, i funerali, i matrimoni o le malattie.

A questa consuetudine si sommano anche gli spostamenti per i pellegrinaggi: l’ultima Ardha Kumbh Mela di Prayagraj (Allahabad) nell’Uttar Pradesh ha registrato la presenza di decine di milioni di pellegrini provenienti da ogni angolo dell’India, larghissima parte dei quali ha raggiunto il sito viaggiando in treno.

Il viaggio in treno costituisce per gli indiani un fenomeno assolutamente trasversale, interculturale, interreligioso e intercastale: sui treni indiani è possibile incontrare la totalità delle anime che compongono il variegato affresco di questo grande, straordinario Paese.


È stato detto che l’avvento della ferrovia, reso possibile dalla colonizzazione britannica a partire dalla prima metà dell’800, ha segnato l’inizio di una nuova epoca per gli indiani, e che la ferrovia ha unito l’India come non è riuscito a fare da allora nessun altro programma d’integrazione.

Sta di fatto che il viaggiatore può salire su un treno a Jammu nel Kashmir, ai piedi della catena montuosa dell’Himalaya, e scendere a Kanyakumari, la punta più meridionale dell’India, dove il Mare Arabico, l’Oceano Indiano e il Golfo del Bengala si incontrano. Avrà percorso più di 3.700 chilometri attraversando 12 stati e trascorrendo circa 70 ore in treno.


Ogni giorno oltre 9.000 treni percorrono circa 80.000 chilometri, trasportando più di 13 milioni di passeggeri. I treni merci trasportano quotidianamente 1,5 milioni di tonnellate di prodotti. In totale, treni merci e treni passeggeri percorrono ogni giorno tre volte e mezzo la distanza Terra-Luna, su una rete composta da circa 7.000 stazioni, 8.000 locomotive, oltre 280.000 carrozze e vagoni, e naturalmente da binari per una lunghezza complessiva pari a quasi 108.000 chilometri, inclusi i raccordi. Ecco perché le ferrovie indiane impiegano circa 1,6 milioni di persone, una forza lavoro più numerosa di qualsiasi altra azienda del mondo.


A questa smisurata vastità non corrisponde però una adeguata modernità della rete e del materiale rotabile: ancora oggi i treni in India sono lentissimi e inaffidabili. Gli incidenti sono molto frequenti e le enormi distanze trasformano i viaggi più lunghi in veri e propri pellegrinaggi, nel corso dei quali i viaggiatori sono costretti a bivaccare negli scompartimenti in cui trascorreranno moltissime ore, a volte interi giorni, a causa della lentezza dei convogli e dei pesanti ritardi accumulati, soprattutto nei mesi invernali. Basti pensare alla nebbia, molto frequente in tutto il Paese durante la stagione fredda, che costringe i treni ad andature estremamente moderate per poter evitare i frequenti ostacoli (molto spesso vacche) che si parano all’improvviso sui binari.


Le fotografie in mostra, scattate nelle stazioni di Prayagraj (Allahabad) e Varanasi nel febbraio del 2019, nei giorni di un importantissimo pellegrinaggio religioso, si propongono di mostrare -attraverso gli sguardi, i gesti, i sorrisi, la stanchezza quasi palpabile- le difficili condizioni nelle quali questo popolo itinerante, il popolo delle classi più economiche, deve affrontare la fatica dello spostamento, viaggiando nella calca su treni vetusti, scomodi, sporchissimi, privi di aria condizionata e spesso anche dei servizi igienici.


La carrozza ferroviaria, che nella maggior parte delle fotografie incornicia questi volti, non vuole essere solo un mero espediente compositivo: il treno rappresenta un’efficace metafora della condizione esistenziale di queste persone, costrette dal loro status ad esercitare una costante, ineluttabile sopportazione, che fin dalla nascita ne caratterizzerà la vita intera. Da questo, piuttosto che dalla ricerca di uno stereotipato esotismo, deriva il mio amore profondo per l’India e per il popolo indiano: l’urgenza di questo lavoro risiede precisamente in un tributo a questa gente dalle incredibili risorse, capace di convivere e prosperare, sempre contraddistinta da una sorprendente mitezza, con quelli che Pasolini definiva “i caratteri dell’insopportabilità”.