UNA STORIA DI TORTELLI
È sempre stimolante ascoltare storie sull’origine di un piatto tradizionale diffuso su gran parte del territorio emiliano-romagnolo con una bella serie di varianti: il tortello d’erbette.
Sabato 22 giugno al Laboratorio Aperto del Complesso di San Paolo, a Parma, USHAK Atelier delle Meraviglie ha organizzato un incontro nel quale Andrea Pacciani e Ennio Barbieri presentavano il loro originale piatto a forma di scudo crociato, studiato appositamente per esaltare le caratteristiche del tortello che la tradizione vuole venga affogato nel burro e asciugato nel formaggio (devo specificare quale formaggio?).
Ma la domanda che un infiltrato reggiano come me si poneva da tempo era questa: perché i parmigiani si ostinano a chiamare “Tortello d’erbetta” una pasta il cui ripieno è composto per il 99% da ricotta e Grana?
Fascinosa è stata la spiegazione che Pacciani ha tratto da una sua interpretazione di una tela di Filippo Mazzola (padre di Girolamo, ben più noto come Parmigianino) recentemente restaurata, che in origine sovrastava l’altare maggiore del Battistero parmense: in questa grande opera, è raffigurato il battesimo di Gesù, operato ovviamente da San Giovanni (figura straordinaria dei Vangeli, dove oltre che “il Battista” viene definito “il Precursore” e che nel martirologio cristiano è l’unico santo del quale si celebra la nascita oltre che la morte) e ai suoi piedi si vedono nascere diverse erbette, irrorate dall’acqua benedetta caduta dal capo del Cristo e questo, secondo Pacciani, condurrebbe a una stretta correlazione fra il popolare e il religioso nella nascita della tradizione.
Poco importa quale delle due caratterizzazioni venga prima, o se e quanto l’interpretazione sia storicamente attendibile, quel che è certo è che gran parte delle tradizioni popolari ha avuto origine o è stata contaminata da qualche aspetto religioso e questo rende l’ipotesi di Pacciani del tutto plausibile, in qualsiasi forma la si voglia leggere.
Più laica e pragmatica la storia raccontata dal giornalista Lorenzo Sartorio, che tutti chiamavano professore ma che di questo titolo si scherniva preferendo la semplice qualifica di cronista, che narrava di antiche cerimonie solstiziali al cui paganesimo la Chiesa ha sovrapposto la cattolicissima data di San Giovanni e che le condizioni climatiche del periodo fanno coincidere con notti particolarmente ricche di rugiada (la roseda ed san Zvan) favorevoli alla crescita e maturazione delle erbette che andavano immantinente colte da mano femminile, purché vergine, e con lama di legno.
Nel medioevo infatti il ferro era considerato materiale diabolico, da qui l’altro detto che Dio ha fatto le pentole (che erano ancora di terracotta, poco costose) e il diavolo i coperchi (che invece erano già di metallo, caro ma meno incline a rompersi). Un fugace accenno ad altre eventuali influenze astrali per la scelta della data non ha evidentemente alcun riscontro concreto, ma la fantasia contadina dell’epoca non poteva non esserne ammaliata (anche se nella pratica il contadino, dalle scarpe grosse e il cervello fino, non se ne curava poi granché preferendo la propria esperienza concreta).
Bello l’excursus che ci ha regalato Andrea Grignaffini che teorizzava l’introduzione di qualche erba aromatica nel tortello come il tentativo di una rezdora particolarmente perspicace di rendere più appetibile il piatto a un marito riottoso nei confronti di una ricetta che vedeva come ingrediente preponderante la ricotta che, all’epoca, doveva essere un prodotto di scarto e di pessima qualità, secondario alla creazione di prodotti più nobili.
Palesemente innamorato del tortello piacentino, ritenuto più raffinato (la versione a treccia “con la cua”, con la coda, leggenda vuole che sia nata dal desiderio del nobile Bernardo Anguissola per compiacere il fine gusto estetico di Francesco Petrarca, ospite nel suo castello di Vigolzone), Grignaffini si pone la stessa domanda di chi scrive considerando che nelle vicine Reggio Emilia e Modena, fino alla Romagna, la stessa tradizione ha visto la netta prevalenza delle verdure, giungendo in alcuni casi all’esclusione totale della ricotta.
Un lettore minimamente curioso a questo punto sarebbe lecito che chiedesse: va bene, ma alla fine queste erbette, benedette o meno, quali sono?
Per erbette si intenderebbero nello specifico le bietole, un po’ ovunque si sono introdotti gli spinaci (nel reggiano generalmente le due in parti uguali) con l’arricchimento di prezzemolo, ma vanno considerate come tali, alla fine, un po’ tutte le erbe spontanee della nostra regione, data l’ovvia tendenza dell’intelligenza contadina, per compensare la diffusa povertà e gli imprevedibili momenti di carestia, a utilizzare tutto ciò che di commestibile la natura aveva da offrire: crescione, strigoli, ortica, tarassaco, per esempio, dei quali ormai si è quasi completamente perso l’uso.
E qui, alla voce ingredienti, si è levata forte la voce di Bruno Cingolani: al suo esordire con “Mi chiamo Bruno Cingolani e faccio lo chef”, chi scrive ha avvertito un sottile brivido di piacere nel cogliere un parallelo con quell’altra celebre citazione “Mi chiamo John Ford e faccio western” (in entrambi i casi è come dire: Mi chiamo Bergoglio e faccio il Papa), quando l’immenso hollywoodiano si levò in platea per fare a fette il malcapitato Cecil B. De Mille che appoggiava la delazione maccartista.
Non il maccartismo, bensì la consuetudine di offrire in menù i tortelli d’erbetta del tutto fuori stagione, in inverno, è stato l’oggetto dell’anatema cingoliano che ha teso a stimolare il pubblico verso una ricerca minuziosa della qualità di ogni singolo ingrediente di cucina nel rigoroso rispetto della stagionalità. Anche durante il finale assaggio di tortelli, perché possiamo parlare finché vogliamo ma poi bisogna pur soddisfare le papille gustative, ascoltandolo lavorare (nonsense voluto, pensateci) Bruno mi è parso personaggio fordiano (massima onorificenza che il sottoscritto cinéfile possa concedere a chiunque, sia ben chiaro), quando il Grande Vecchio sosteneva che al cinema la gente si ricorda di quello che succede più di quello che si dice, esattamente come in cucina: Honi soit qui mal y pense!
Si ringrazia il Comune di Parma, marco Bosi, Laboratorio Aperto di Parma.